Licenziamento del lavoratore sottoposto a custodia cautelare | ADLABOR | ISPER HR Review

Un lavoratore può essere licenziato a seguito della sua condanna in sede penale per fatti commessi nell’esercizio delle sue funzioni.

Tale risoluzione del rapporto di lavoro dovrà avere natura disciplinare e rispettare i generali requisiti di:

  • immediatezza e specificità della contestazione;
  • garanzia del diritto di difesa del lavoratore;
  • tempestività nella comminazione del provvedimento disciplinare espulsivo, a seguito della condanna riportata in sede penale o anche prima della sentenza, se il datore dispone di elementi sufficienti per procedere in sede disciplinare, senza dover attendere la decisione del Giudice penale.

Parimenti legittimo per la Suprema Corte è il licenziamento disciplinare del dipendente che ha patteggiato la pena per un reato connotato da violenza di genere extra lavorativo.

Secondo i giudici della Cassazione, infatti, la sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 del c.p.p., pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque un’ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall’onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito: “Quanto, infine, alla valenza della cd. sentenza di patteggiamento ex art. 444 cpp, deve ribadirsi il consolidato principio affermato da questa Corte (Cass. n. 3980/2016; Cass. n. 30328/2017) secondo cui la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque una ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall’onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione” (Cass., Ordinanza 9 settembre 2024, n. 24140).

Ma qual è la posizione della giurisprudenza e come si deve atteggiare un datore di lavoro in presenza di un proprio lavoratore dipendente sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere per fatti estranei al rapporto di lavoro?

 In primo luogo, si rileva come il licenziamento andrebbe qualificato come disciplinare in presenza di una protratta assenza ingiustificata, laddove il prestatore di lavoro sottoposto alla custodia cautelare non fornisca alcuna motivazione al datore e non sia in grado di provare l’impossibilità di avere contatti con l’esterno o un giustificato impedimento (Cass. 13383/2023).

Al netto di questo caso particolare, è innegabile che lo stato di detenzione preventiva del dipendente costituisce un evento impeditivo della prestazione di lavoro (con conseguente sospensione del rapporto) che – non rientrando tra le ipotesi di impossibilità temporanea tutelate dall’ordinamento (es. congedi, i permessi, assenza per malattia, infortunio, etc.) – comporta la perdita del diritto alla retribuzione per tutto il tempo in cui si protrae la carcerazione (sempre che la contrattazione collettiva non preveda una disciplina più favorevole).

Secondo la giurisprudenza, lo stato di detenzione del lavoratore, per fatti estranei al rapporto di lavoro non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali, ma integra gli estremi della sopravvenuta temporanea impossibilità della prestazione, che giustifica il licenziamento solo ove, in base ad un giudizio che tenga conto:

  • delle dimensioni dell’impresa;
  • del tipo di organizzazione tecnico-produttiva in essa attuato;
  • della natura e importanza delle mansioni del lavoratore detenuto;
  • del già maturato periodo di sua assenza;
  • della ragionevolmente prevedibile ulteriore durata della sua carcerazione;
  • della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le sue mansioni senza necessità di nuove assunzioni

e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della misura della tollerabilità dell’assenza, costituisca un giustificato motivo oggettivo di recesso, non persistendo l’interesse dal datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente detenuto (Cass. 7.6.2013, n. 14469; Cass. 1.6.2009, n. 12721).

Pertanto, la carcerazione preventiva non giustifica sempre il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ma soltanto nella misura in cui l’assenza del lavoratore determini problemi organizzativi non fronteggiabili con il restante personale.

La prova di una simile circostanza deve essere fornita dal datore di lavoro.

In particolare, secondo un orientamento consolidato della Corte di Cassazione: “La sottoposizione del lavoratore a carcerazione preventiva per fatti estranei al rapporto di lavoro non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali, ma consente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove, in base ad un giudizio “ex ante”, tenuto conto di ogni circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell’assenza (tra cui le dimensioni dell’impresa, il tipo di organizzazione tecnico-produttiva, le mansioni del dipendente, il già maturato periodo di sua assenza, la ragionevolmente prevedibile ulteriore durata dell’impedimento, la possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni), non persista l’interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente, senza che sia configurabile, inoltre, a carico del datore di lavoro, l’obbligo del cd. “repêchage”, istituto che richiede una fungibilità e una idoneità attuale lavorativa (sia pure parziale) del dipendente, che non ricorrono nel caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione per stato di detenzione del lavoratore, cui consegue, ex art. 1464 c.c., il venir meno dell’apprezzabile interesse datoriale al parziale adempimento della prestazione lavorativa. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito con cui era stata rigettata l’impugnativa del licenziamento proposta da un lavoratore al quale, dopo la sospensione dal servizio a seguito della sottoposizione ad una misura restrittiva della libertà personale, era stata intimata la risoluzione del rapporto in ragione della protrazione dello stato custodiale per oltre un anno)” [Cass., Sent. 10 marzo 2021 n. 6714, conforme, Cass. Civ., Sezione Lavoro, con ordinanza 7 ottobre 2024, n. 26208].

A fronte della predetta cornice generale, andranno ovviamente valutate eventuali disposizioni specifiche previste dalla contrattazione collettiva del settore di appartenenza per i dipendenti posti in regime di detenzione o sottoposti a misure restrittive della libertà personale, che potrebbero individuare preventivamente un arco temporale di tolleranza dell’assenza il cui superamento, in mancanza di effettivo interesse a ricevere l’eventuale futura prestazione, legittimerebbe la risoluzione del rapporto da parte del datore di lavoro.

Ma non va dimenticato quanto previsto dall’art. 102 delle norme di attuazione del codice di procedura penale secondo cui: “Chiunque sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell’art. 285 del Codice ovvero a quella degli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 284 del Codice e sia stato per ciò stesso licenziato dal posto di lavoro che occupava prima dell’applicazione della misura, ha diritto di essere reintregrato nel posto di lavoro medesimo qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere, ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione“.

Alla luce di questa norma, quindi, dovrebbe essere immediatamente rimosso il licenziamento del lavoratore che sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ovvero a quella degli arresti domiciliari qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione.

L’art. 102 bis disp. att. cod. proc. pen., nel prevedere il diritto del lavoratore – che è stato sottoposto ingiustamente alla misura della custodia cautelare – ad ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro presuppone che il licenziamento sia stato determinato in stretto rapporto di causalità con la detenzione, e cioè che il recesso del datore di lavoro sia fondato esclusivamente sul fattore obiettivo dello “status custodiae” del prestatore d’opera” [Cass. 1/4/2003, n. 4935, Pres. Ciciretti, Rel. Stile].

In questa particolare fattispecie, oltre al ripristino del rapporto di lavoro non si aggiunge alcuna condanna al riconoscimento delle retribuzioni non percepite dal licenziamento alla reintegrazione non essendo stata resa dal dipendente la prestazione lavorativa.

Nella pratica, è quindi comunque consigliabile optare, per un’aspettativa non retribuita, magari in condivisione con il lavoratore o il suo difensore penale piuttosto che procedere con l’adozione di un provvedimento di licenziamento, a meno che sia prevedibile una lunga detenzione.

Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 27 novembre 2024.


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