Mobbing – ( Tribunale del Lavoro di Cosenza, Sentenza n. 708 del 20 Aprile 2007 )
TRIBUNALE DI COSENZA
SEZIONE CONTROVERSIE DI LAVORO
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Cosenza, in composizione monocratica, in persona del dott. Vincenzo Lo Feudo, in funzione di giudice del lavoro, all’udienza del 28.03.2007 ha pronunciato la seguente
nella causa iscritta al n. 5107/04 RGAL
I. A., rappresentato e difeso dagli avv. M. C. e F. D.
H. S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv. L. L. e M. G.
Con ricorso ritualmente notificato I. A. conveniva in giudizio la H S.p.a. esponendo di aver lavorato alle dipendènze della società convenuta dal 23.9.2002 al 22.9.2004 con contratto a tempo determinato e con la qualifica di commesso magazziniere, V livello C.C.N.L. di settore e di essere stato “licenziato” per il mancato rinnovo del contratto a termine.
Esponeva, inoltre, di aver sempre svolto le proprie prestazioni con la massima professionalità e con dedizione, riscontrando, tuttavia, sin dall’inizio l’ostilità della responsabile del punto vendita/capo reparto, Sig.ra C. A., la quale aveva tenuto nei suoi confronti un comportamento vessatorio, tradottosi in una serie di episodi di aggressioni verbali ingiuriose anche davanti ai colleghi ed alla clientela.
Aggiungeva che la condotta mobbizzante del superiore gerarchico si era manifestata anche attraverso continue minacce di licenziamento e che spesso si era accorto di essere seguito e spiato (anche attraverso le telecamere presentì sul luogo di lavoro).
Precisava, inoltre, che la responsabile del punto vendita (tra l’altro avvezza a tali comportamenti anche in danno di altri lavoratori) aveva assunto un comportamento vessatorio anche in occasione di sue assenze per malattia, arrivando a telefonargli a casa per esprimere dubbi sulla reale sussistenza delle patologie da cui era affetto e nell’occasione offendendo anche la madre del ricorrente.
Tanto premesso il ricorrente deduceva che la condotta di mobbing di cui era stato vittima ed il conseguente clima di terrore nel quale era stato costretto a vivere aveva determinato l’insorgenza di uno stato di profondo malessere psico – fisico, con sintomi particolarmente gravi, quali depressione, insonnia, deflessione dell’umore, astenia, crisi di pianto e disturbi comportamentali. Chiedeva, quindi, accertarsi la sussistenza di un danno biologico riconducibile alla responsabilità esclusiva della parte convenuta, con conseguente condanna di quest’ultima al risarcimento del suddetto danno, nella misura di euro 20.000,00, salva migliore o diversa determinazione.
Si costituiva la convenuta società e chiedeva il rigetto del ricorso in quanto infondato in fatto ed in diritto, evidenziando la genericità delle deduzioni, l’infondatezza comunque degli assunti e la mancata articolazione di prove idonee a sostenere gli assunti stessi anche in ordine al rapporto di causalità tra i danni allegati e il dedotto comportamento illecito del datore di lavoro.
All’udienza odierna, sulla base degli atti, la causa è stata discussa e, quindi, decisa con lettura pubblica del dispositivo.
Il ricorso non può trovare accoglimento.
Secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito con il termine mobbing ci si riferisce a una situazione di aggressione, di esclusione, di emarginazione di un lavoratore da parte dei suoi colleghi o dei suoi superiori, che si manifesta attraverso una serie coordinata e sistematica di azioni con cui l’aggressore (mobber) intenzionalmente mette in atto strategie comportamentali volte alla distruzione psicologica, sociale e professionale della vittima (mobbizzato).
L’accertamento dell’illecito comporta dunque il riscontro di una condotta sistematica e dolosa di soprusi finalizzati a danneggiare il lavoratore e del nesso causale esistente tra il pregiudizio lamentato e detto comportamento. Orbene nel caso di specie non può che evidenziarsi come il ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio abbia in modo estremamente generico allegato che dalla asserita condotta mobbizzante è derivata l’insorgenza di uno stato di profondo malessere psico – fisico (con sintomi particolarmente gravi, quali depressione, insonnia, deflessione dell’umore, astenia, crisi di pianto e disturbi comportamentali) senza tuttavia fornire riscontri in ordine alla sussistenza delle patologie dedotte e senza offrire riscontri in ordine alla sussistenza del necessario nesso eziologico tra le patologie stesse e la condotta datoriale.
Il ricorrente ha infatti chiesto di provare attraverso la prova per testi il comportamento vessatorio del superiore gerarchico ed ha chiesto, altresì, al giudice di disporre “una consulenza medico – legale al fine di determinare il danno biologico patito”.
Ebbene, posto che secondo il pacifico e costante orientamento della Suprema Corte “In relazione alla finalità propria della consulenza tecnica d’ufficio, che è quella di aiutare il giudice nella salutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze, il suddetto mezzo di indagine non può essere disposto alfine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimamente negato dal giudice qualora la parte tenda con esso a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerta di prove ovvero a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati” (cfr. ex multis, n. 2887/2003) nel caso di specie non può che rilevarsi come, in difetto di idonei riscontri documentali, la richiesta consulenza avrebbe avuto la suddetta inammissibile finalità di verificare circostanze non provate (circostanze che, per converso, riguardando lo stato di salute del ricorrente, si sarebbero potute provare agevolmente).
Non è infatti verosimile, secondo l’id quod plerurnque accidit, che del malessere psico-fisico dedotto (che si sarebbe manifestato attraverso sintomi di sicura gravità quali depressione, insonnia, deflessione dell’umore, astenia, crisi di pianto e disturbi comportamentali) non esista sufficiente documentazione e che, dunque, di fronte a tali sintomi il ricorrente non abbia ritenuto di doversi rivolgere a strutture sanitarie pubbliche o private, se non in due circostanze. In atti si riviene, invero, documentazione relativa ad un due episodi di perdita di coscienza con conseguente caduta e trauma cranico verificatisi nelle date del 21.4.2004 e del 20.9.2004, episodi che appaiono riconducibili a fenomeni di natura organica piè che di natura psicologica e che, dunque, diffìcilmente possono essere ricondotti al dedotto comportamento datoriale, A ciò si aggiunga che proprio in occasione della visita presso il Pronto Soccorso del P.O. di Cosenza seguito all’episodio del 21.4.2004 il ricorrente, a differenza di quanto asserito in ricorso, sostiene di non soffrire di gravi malattie (“nega patologie degne di nota”, cfr. il relativo certificato, nella parte relativa alle “note anamnestiche”) e che tanto risulta in chiaro contrasto con l’assunto secondo cui la condotta asseritamente vessatoria sarebbe iniziata subito dopo l’assunzione del lavoratore, avvenuta in data 23.9.2002 (in altri termini è davvero poco verosimile che a distanza di un anno e mezzo dall’assunzione e nonostante “il clima di tensione e di continui scontri con al responsabile” e la circostanza di “aver subito dinieghi ingiustificati, pretestuosi e illegittimi, offese ed ingiurie” il lavoratore non avesse già avvertito nella suddetta data sintomi relativi a “patologie degne di nota”).
Inoltre nessuno dei capitoli della prova per testi articolata in ricorso risulta finalizzato a provare la sussistenza dei pregiudizi dì cui si chiede il ristoro, essendo tutti volti alla sola ricostruzione dell’iter lavorativo del ricorrente. In tale situazione non può che trovare applicazione, allora, il noto e costante orientamento della Suprema Corte la quale, in rigorosa coerenza ai principi in materia dì onere della prova, piè volte ha statuito in tema di risarcimento danni asseritamente cagionati dal datore di lavoro: ” Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita ài relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della ksione del proprio diritto…deve fornire la prova dell’esistenza di tal danno e del nesso di causalità con l’nadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione eccitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non e’ sufficiente dimostrare la mera potenzialità ksiva della condotta datoriak, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generak di cui alVart. 2697 eoa. civ.. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito sul punto in quanto il giudice, invece di veri/icore, se il prestatore di lavoro aveva nella specie provato, conformemente alVonere probat^o da cui era gravato, il danno ed il nesso di causalità con l’inadempimento datoriale, aveva, affermato che al demansionamento professionale andava riconosciuta una indubbia dimensione patrimoniale, suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pur in mancanza della dimostrazione di un effettivo pregiudizio” Cass., ru 10361 del 28.5.2004, CONF 7905/1998 e 8904/2003) In difetto, dunque, di una chiara allegazione e di riscontri certi in ordine ai suddetti danni risulta, allora, preclusa la stessa valutazione della fondatezza o meno delle asserzioni relative alla condotta mobbizzante che si assume quale causa dei pregiudizi indicati in ricorso.
La domanda non può, dunque, trovare accoglimento, pur sussistendo, tuttavia, in relazione alle qualità personali delle parti, giusti motivi per compensare le spese di lite.
Rigetta il ricorso.
Compensa le spese di lite.
Cosenza, 28.3.2007
dott. Vincenzo Lo Feudo
Depositata in Cancelleria, addì 20.4.2007