Mobbing – ( Tribunale di Napoli, Sezione Lavoro, Ordinanza del 31.10.2013 )
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI NAPOLI
SEZIONE LAVORO
Il Giudice del Lavoro, in composizione monocratica in persona della dott. Maria Gaia Majorano, visti gli atti e sciogliendo la riserva di cui all’udienza del 31.10.2013, nella causa iscritta al n. 20348/2013 RG. Lavoro, avente ad oggetto ricorso ex art. 700 c.p.c., proposto da G. N.
OSSERVA E RILEVA
La ricorrente in epigrafe, premesso di essere in servizio da diciannove anni presso la B. come addetta mensa, svolgendo le sue mansioni dal 2010 come dipendente della C. G. I., riferiva che da tale data lavorava a stretto contatto con i colleghi V. P., C. S. e A. R. .
Rappresentava che il primo in più occasioni l’aveva molestata sessualmente, assumendo un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti.
In data 01.12.2011 ella rassegnava le dimissioni per gravi motivi familiari. Indotta dal marito a svelare le vere ragioni alla base del recesso, la stessa chiedeva ed otteneva la revoca delle dimissioni. Chiedeva e otteneva anche il trasferimento in altra sede, Capua, località difficilmente raggiungibile dalla ricorrente che pertanto ritornava in servizio presso la sede di Napoli, ove continuava a subire gli atteggiamenti sgraditi del P. che aveva coinvolto anche S. e R. .
Informava i vertici C. con comunicazione della Segretaria della CISL Napoli e del Segretario Generale Filcalms e con diffida scritta inviata anche alla B. e denunziava penalmente il P. .
Tanto premesso, rinvenendo la sussistenza del fumus boni iuris nelle molestie sessuali e nel mobbing patito ed il periculum nel pregiudizio che sta subendo, tanto da godere di un periodo di astensione dal lavoro senza retribuzione, chiedeva “in via cautelare e principale adottare ogni opportuno provvedimento teso a tutelare la lavoratrice, preservandone l’attuale incarico e sede di lavoro, volendo nel contempo allontanare il P….; in via subordinata disporre il trasferimento della ricorrente in altra sede dell’azienda, sempre nella provincia di Napoli…; accertare e dichiarare il danno biologico, morale ed esistenziale subito dalla lavoratrice… e condannare i resistenti al risarcimento nella misura determinata a seguito di CTU.
Si costituiva la C. G. I. s.p.a. che riferiva di avere appreso di un momento mentale non buono causato da gravi pressioni e condizionamenti psicologici …… sul posto di lavoro” della N. con la missiva di revoca delle dimissioni in data 1.12.11. Null’altro ella precisava; taceva su qualsivoglia problema fino al 4.7.2012 quando le organizzazioni sindacali trasmettevano all’azienda una lettera, cui seguivano diverse azioni poste in essere dall’azienda stessa.
Si costituivano le convenute C. e B. . La prima rilevava che non vi erano ragioni di urgenza alla base del ricorso in quanto la N. era in aspettativa non retribuita fino al 24.10.13. Nel merito riteneva infondato il ricorso. La B. che si dichiarava estranea alla fattispecie, non avendo come appaltante alcuna responsabilità in relazione alla condotta dei dipendenti dell’appaltatore. Si costituiva anche V. P. che negava ogni responsabilità in merito ai fatti denunziati dalla N., riferendo di aver patito “avances” sessuali, chiedeva la sospensione del procedimento in attesa dell’udienza penale del 22.10.13, eccepiva l’infondatezza nel merito del ricorso.
All’udienza dell’8.7,2013 le parti chiedevano concordemente un rinvio a data successiva all’estate per perfezionare le trattative, volte ad una soluzione conciliativa. All’udienza del 19.9.13 si apprendeva del fallimento della conciliazione e si rinviava al 7.10.13 per sentire gli informatori. Escussi questi ultimi si rinviava al 31.10.13 per la decisione, con termine per note fino al 21.10.13.
Il 31.10.13
Il giudice riservava la causa in decisione.
Il giudice sciogliendo la riserva, rileva la infondatezza della domanda che deve essere rigettata per le ragioni che seguono.
Ai fini dell’emanazione di un provvedimento, ai sensi dell’art.700 c.p.c., è necessaria la contestuale presenza di due presupposti: il periculum in mora ed il fumus boni iuris
La mancanza o l’infondatezza anche di uno di questi elementi è causa del rigetto del ricorso. E’ evidente che un generico interesse a rapida tutela dei diritti è una esigenza comune a tutti i procedimenti giudiziari ed in particolare caratterizza quelli di lavoro. Ai fini della concessione di un provvedimento cautelare l’esistenza di un tale interesse non è sufficiente.
Sì esamini la sussistenza nel caso di specie del fumus boni iuris, ossia al sussistenza di una condotta di” mobbing” nel caso in esame.
Il concetto di mobbing (dal verbo “to mob” che ha il significato di aggredire, circondare per assalire oppure affollarsi per accalcarsi ed in etologia indica le condotte minacciose ed aggressive del branco nei confronti di un individuo) deriva dalla definizione di un fenomeno prima sociologico e psicologico e poi giuslavoristico.
L’approccio immediato con tale fenomeno deriva dalla constatazione diffusa secondo cui esso è sempre esistito, soprattutto all’interno delle aggregazioni umane di lavoro e consiste nell’aggressione subita da un soggetto in modo persecutorio e reiterato nel tempo, con la finalità perseguita dall’agente o dagli agenti di emarginare la vittima dall’ambiente lavorativo inducendola ad abbandonarlo.
Per sintetizzare le concrete modalità di realizzazione del fenomeno, che può essere verticale, quando la persecuzione proviene dai vertici aziendali, ovvero orizzontale quando sorge da iniziative dei colleghi di lavoro della vittima, va osservato che trattasi di procedimento la cui caratteristica è quella di svolgersi in modo graduale.
A livello scientifico gli studiosi, hanno enucleato sei fasi, che ovviamente al momento della loro materiale realizzazione, sono spesso sovrapposte ed intrecciate.
In un primo momento, ciò che si evidenzia è il sorgere di un conflitto mirato che si manifesta quando si attribuiscono al medesimo individuo le colpe per gli errori, i ritardi, le imperfezioni dell’intera organizzazione di lavoro, si raccoglie, cioè, ogni minimo pretesto per aggredire o attaccare urta sola persona: la fase successiva è poi, quella della “creazione” di nuovi pretesti, sempre con la medesima finalità di isolare la vittima; al terzo momento della scansione cominciano ad apparire i primi segni di cedimento dell’equilibrio psicofisico e la vittima manifesta problemi psicosomatici quali insonnia, nodo alla gola, tremore alle gambe, sfinimenti, è nervosa e coltiva un senso di totale sfiducia nelle proprie capacità lavorative; in tale contesto, il mobbizzato inizia a tenere comportamenti collegati ai malesseri di cui soffre, ma che lo portano ad assentarsi dal posto di lavoro e ciò spesso lo danneggia ulteriormente, perché tra i colleghi comincia a circolare la voce che non voglia lavorare; si giunge, quindi, alla fase successiva. quando la vicenda varca i limiti dell’ufficio di appartenenza e giunge a conoscenza dell’intera organizzazione aziendale; in questa fase tutto si amplifica poiché il “caso” arriva sulla bocca di tutti e tutti si sentono autorizzati ad esprimere pareri, aggravando la portata e la gravità della vicenda; nella fase ancora successiva, il preposto interviene contattando autoritativamente la vittima ed avvisandolo della possibilità di incorrere in gravi sanzioni disciplinari, in caso di persistenza nel comportamento; infine, nella sesta fase, sì consuma l’esito del procedimento, che consiste nell’uscita dall’ambiente lavorativo per una delle cause tipiche e cioè il prepensionamento per malattia, licenziamento, dimissioni o, nei casi più gravi , suicidio.
Infatti, è caratteristico del mobbing il prodursi di gravi patologie a carico della vittima con il determinarsi di una serie di danni ed inefficienze a pieno raggio, sia nell’ambiente aziendale che in quello extralavorativo e soprattutto familiare e sociale.
A livello giuridico recentemente la Corte di Cassazione si è occupata della fattispecie nella sentenza n. 4774/2006: “….. una fattispecie di danno derivante da una condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore …. Le circostanze esaminate acquistano rilevanza ai funi dell’accertamento dì una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art. 2087 cod. civ.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa. anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato”.
Si veda anche Corte Costituzionale n. 359 dei 2003: “E’ noto che la sociologia ha mutuato il termine mobbing da una branca dell’etologia per designare un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nei tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo. caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Ciò implica l’esistenza di uno o più soggetti attivi cui i suindicati comportamenti siano ascrivibili e di un soggetto passivo che di tali comportamenti sia destinatario e vittima.
Per quanto concerne i soggetti attivi vengono in evidenza le condotte commissive o, in ipotesi, omissive – che possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione.
Per quanto riguarda il soggetto passivo si pongono principalmente problemi di individuazione e valutazione delle conseguenze dei comportamenti medesimi, Tali conseguenze. secondo le attuali acquisizioni, possono essere di ordine diverso Infatti, la serie di condotte in cui dal lato attivo si concretizza il mobbing può determinare: l’insorgenza nel destinatario di disturbi di vario tipo e, a volte, di patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress post-traumatico; Il compimento, da parte del soggetto passivo medesimo o nei suoi confronti, di atti che portano alla cessazione del rapporto di lavoro (rispettivamente: dimissioni o licenziamento), anche indipendentemente dall’esistenza dei disturbi di tipo psicologico o medico di cui si è detto sopra; l’adozione, da parte della vittima, di altre condotte giuridicamente rilevanti, ed eventualmente illecite, come reazione alla persecuzione ed emarginazione”.
Orbene, l’accertamento del danno da mobbing esige “una valutazione unitaria degli episodi denunciati dal lavoratore, i quali raggiungono la soglia del mobbing ove assumano le caratteristiche di una persecuzione, per la loro sistematicità e la durata dell’azione nel tempo”.
Secondo l’avviso della Corte Costituzionale, infatti, gli atti posti in essere possono risultare “se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico”, assumendo, purtuttavia, “rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto” e risolvendosi, normalmente, in “disturbi di vario tipo e, a volte, patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress postraumatico”.
In effetti, il mobbing sul posto di lavoro può realizzarsi con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall’inadempimento di specifichi obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. Quindi l’esistenza della lesione del bene protetto e delle conseguenze deve essere valutata nel complesso degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, considerando l’idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa.
Si premetta ancora che vi è responsabilità del datore anche ove (pur in assenza d’un suo specifico intento lesivo) il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente. Essa può discendere, attraverso l’ad. 2049 cod. civ,, da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia l’intrinseca illiceità soggettiva ed oggettiva ditale diretto comportamento ed il rapporto di occasionalità necessaria fra attività lavorativa e danno subito).
Analizziamo la “verità processuale” alla luce di tali premesse.
Gli informatori hanno riferito quanto segue:
L. S., marito della ricorrente, riferiva solo quanto appreso dalla moglie. Aggiungeva che i colleghi di essa S., R. e T. erano stati testimoni diretti delle vicende patite dalla N. . Aggiungeva che in un’unica occasione incontrò per caso il P. ed “ebbe chiara la sensazione che volesse registrare l’incontro”, provocandolo ma egli non cedette.
M. T. riferiva di non avere mai assistito a “problemi” tra P. e la N. e dì averne appreso dell’esistenza solo dalla N. stessa. Aggiungeva di aver detto alla N. di non credere che il P. la importunasse e di non voler essere coinvolta.
C. S. dichiarava di non avere “mai assistito a molestie fatte alla N. da P.”; aggiungeva che la N. MAI gli aveva confidato di suoi problemi col P. .
L. P. riferiva di avere appreso dalla N. che da anni c’erano problemi con un collega; aggiungeva che l’azienda aveva inviato formale contestazione a quest’ultimo ma dalle indagini svolte le accuse non trovavano riscontro. Aggiungeva che la C. aveva proposto alla N. il trasferimento in altra sede e di aver proposto analogo trasferimento al P. .
Anche G. T. confermava quanto la C. aveva posto in essere per far fronte alla situazione evidenziata dalla N. .
Dall’esame dei documenti in atti e degli informatori non possono ritenersi integrate le cd. sei fasi di cui in premessa si è parlato:
- “si raccoglie ogni minimo pretesto per aggredire o attaccare una sola persona“: la difficoltà relazionale è stata solo tra la N. ed il P. e non ha coinvolto altri lavoratori se non, in un secondo momento, a detta della ricorrente, C. S. e A. R., che hanno assunto “atteggiamenti ostili” indeterminati dalla ricorrente e non emersi innanzi al giudice.
- “creazione di nuovi pretesti“: non è emersa la sussistenza di pretesti continui da parte del P. La N. riferisce due episodi violenti cui nessuno assistette (estate 2011; abbraccio alle spalle simulando rapporto sessuale; “altra occasione”: richiesta insistente di un bacio e reazione al rifiuto). Racconta poi genericamente delle minacce del P. “… ti faccio licenziare”.
- “si presentano i primi segni di cedimento dell’equilibrio psicofisico e la vittima manifesta problemi psicosomatici“: i problemi psico-fisici vissuti dalla N. non v’è prova siano casualmente connessi alle sue vicende lavorative e alla condotta del P.;
- “conoscenza da parte dell’intera organizzazione aziendale dello status del lavoratore“. l’azienda è stata informata di quanto la N. ha ritenuto di riferire solo in data 4 luglio 2012, sebbene in data 1.12.11 ella avesse revocato le proprie dimissioni, adducendo difficoltà connesse col lavoro ma non specificandole in alcun modo. La C. ha mostrato estrema disponibilità alla lavoratrice accettando le sue dimissioni, accettandone la successiva revoca, accogliendo la sua domanda di trasferimento, acconsentendo alla sua permanenza poi presso la B. di Napoli;
- “il preposto interviene contattando autoritativamente la vittima ed avvisandolo della possibilità di incorrere in gravi sanzioni disciplinari in caso di persistenza nel comportamento“. la ricorrente rappresentava che il P. “assiduamente” le minacciava il licenziamento, ma in alcun modo risulta che il P. rientri tra i vertici aziendali o tra chi, comunque, ha il potere di adottare provvedimenti di tal fatta.
- “uscita della vittima dall’ambiente lavorativo per una delle cause tipiche“: la N. non è uscita dal lavora. Dapprima sì è dimessa, poi ha revocato le dimissioni, ottenendo dal datore C. la massima disponibilità.
Si osserva, inoltre, che il datore di lavoro, a seguito della comunicazione dei sindacati, che è stata successiva di sei mesi rispetto alla querela sporta dalla N. (19.12.11), si rendeva disponibile all’incontro con i sindacati dall’11 al 13luglio 2012. Esso avveniva il 13 luglio.
La C. accoglieva, poi, le dichiarazioni di molti colleghi della N., e non solo C. S. e A. R., ma anche G. T., M. T.: tutti negavano di aver mai assistito ad episodi di molestie patiti dalla ricorrente.
Peraltro, su richiesta della N., organizzava un confronto tra questa ed I colleghi che non consentiva di accertare la fondatezza di quanto denunziato.
Inoltre i Sig. P. e R., tramite un legale, rappresentavano alla C. “una situazione di disagio a cagione dei comportamenti molesti tenuti dalla sig.ra N. G.”.
Il responsabile regionale della C.. Sig. M., pure interrogava i dipendenti della mensa della B. di Napoli sulla situazione della N., ma non raccoglieva elementi di sostegno a quanto ella aveva affermato.
Il datore di lavoro ha tenuto una condotta di assoluto rispetto della lavoratrice N. ed in alcun modo ha tollerato e/o ignorato quanto da essa rappresentato che, però, non ha trovato adeguato riscontro nell’attività anche istruttoria svolta dalla C. .
Si reputa dunque non provata allo stato la sussistenza del fumus boni iuris e ciò esonera dal soffermarsi sull’esame della sussistenza del periculum e sulla domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalla condotta denunziata.
La domanda cautelare va pertanto rigettata.
Sussistono giusti motivi, attesa la natura del giudizio, per l’integrale compensazione tra le parti. delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
- rigetta il ricorso;
- compensa le spese di lite tra le parti.
Si comunichi.
Napoli, lì 31.10.13
Dott. Maria Gaja Majorano