Intervenuta decadenza per mancata impugnazione del contratto di somministrazione, concluso ante L. n. 183/2010, entro 60 giorni dall’entrata in vigore della L. n.183/2010 – ( Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, Sentenza n. 2969 del 26 luglio 2013 )
TRIBUNALE DI MILANO
SEZIONE LAVORO
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
in composizione monocratica e in funzione di Giudice del Lavoro, in persona della dott.ssa Chiara COLOSIMO, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella controversia di primo grado promossa
Y. I.
con l’Avv. P., elettivamente domiciliato presso lo Studio del difensore in Milano, via S. .
G. S. L. s.r.l.
con l’Avv. Goffredo, elettivamente domiciliata presso lo Studio del difensore in Milano, via Lamarmora n. 18
Oggetto: somministrazione
All’udienza di discussione i procuratori concludevano come in atti.
FATTO E DIRITTO
con ricorso depositato il 13 maggio 2013, l. Y. ha convenuto in giudizio avanti al Tribunale di Milano — Sezione Lavoro — G. S. L. s.r.L, impugnando i contratti di lavoro somministrato a termine, e relative proroghe, sottoscritti con M. S.p.A. e A. S.p.a. per lo svolgimento di attività lavorativa presso la convenuta nei periodi: 4/12/2008-31/12/2008, poi prorogato per tre volte sino al 31/3/2009; 1/4/2009-30/6/2009, poi prorogato per sei volte sino al 31/1/2010; 8/3/2010-15/3/2010; 16/3/2010-17/3/2010, poi prorogato sino al 22/3/2010.
Il ricorrente ha chiesto al Tribunale di:
- accertare e dichiarare la nullità e/o l’illegittimità e/o inefficacia del termine apposto ai suddetti contratti, e delle relative proroghe, e/o dei relativi contratti di somministrazione;
- accertare e dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la convenuta sin dall’origine, o dalla diversa data ritenuta di giustizia;
- previa, se del caso, declaratoria di inefficacia, annullabilità o nullità degli atti di recesso, ordinare a G.S.L. s.r.l. il ripristino del rapporto di lavoro nel medesimo luogo e con le mansioni di cui in precedenza, e condannarla a corrispondergli, anche a titolo risarcitorio, una somma pari a tante mensilità di quante intercorrenti dalla data della messa in mora all’effettivo ripristino del rapporto, tenuto conto di una retribuzione mensile di € 1532,44 lordi;
- in via subordinata rispetto al punto precedente, condannare G.L.S. s.r.l. al pagamento dell’indennità di cui all’Art. 32, co. 5, Legge 183/2010, sempre tenuto conto della suddetta retribuzione lorda mensile.
Il tutto con interessi e rivalutazione e, in ogni caso, con vittoria delle spese di lite.
Si è costituita ritualmente in giudizio G.S.L. s.r.l., eccependo l’infondatezza in fatto e in diritto delle domande di cui al ricorso e chiedendo il rigetto delle avversarie pretese. La società convenuta ha eccepito, tra l’altro, l’intervenuta decadenza dall’impugnazione e, in ogni caso, la risoluzione di fatto del rapporto per il lungo arco temporale trascorso tra la scadenza dell’ultimo rapporto e l’offerta della prestazione di lavoro.
Con vittoria delle spese di lite.
Il ricorso deve essere rigettato risultando fondate sia l’eccezione di decadenza che quella di risoluzione di fatto del rapporto.
Quanto al primo profilo, si rammenta che l’Art. 32, co. 1, Legge 183/2010, nella versione in vigore fino al 18/7/2012, aveva previsto che “Il primo e il secondo comma dell’Art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sono sostituiti dai seguenti: « Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo »”
L’Art. 32, co. 4, lett. d), Legge 183/2010 stabilisce che “le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n.604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche:…d)in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’Art. 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo un soggetto diverso dal titolare del contratto”.
Vero che, a differenza di quanto previsto espressamente per l’impugnazione del termine apposto ai contratti a tempo determinato alla lettera b) del citato comma quarto, per i contratti di somministrazione il Legislatore non risulta aver espressamente disciplinato i casi dei contratti già conclusi all’entrata in vigore della legge.
Tuttavia, contrariamente a quanto affermato in una recente pronuncia del Tribunale di Milano, ritiene il giudicante che quanto esplicitamente previsto per i contratti di lavoro a tempo determinato debba trovare applicazione anche per le altre ipotesi di cui all’Art. 32 della Legge 183/2010, sia per una questione di ordine sistematico, che in ossequio a una lettura costituzionalmente orientata della norma.
Sotto il profilo prettamente sistematico, si osserva che la lettera d) si pone quale norma di chiusura (“in ogni altro caso in cui…”) di un comma che individua espressamente, non tanto le tipologie di contratto di lavoro alle quali deve applicarsi la nuova disciplina (il contratto di lavoro a tempo determinato, difatti, già contemplato al comma terzo), ma una deroga al principio di efficacia temporale.
La previsione in esame dispone, infatti, l’applicazione della nuova disciplina ai contratti di lavoro a termine “in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore” della legge, ai contratti di lavoro a termine “già conclusi alla data di entrata in vigore” della legge, alla cessione del contratto di lavoro ex Art. 2112 cc. “con termine decorrente dalla data del trasferimento” e, infine, per l’appunto, “in ogni altro caso in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.
Sotto un profilo di ordine piè generale, deve ritenersi che tale sia l’unica interpretazione che consenta di ritenere la normativa in esame coerente con gli Artt. 3 e 24 Costituzione poiché, a fronte di una disciplina che contempla espressamente tanto la fattispecie del contratto a tempo determinato quanto la fattispecie del contratto di lavoro somministrato, alla quale per legge si applica “la disciplina di cui ai D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, per quanto compatibile” (Art. 22, co. 2, D.Lgs. 276/2003), non vi sarebbe modo di giustificare l’introduzione di un limite all’impugnazione dei contratti già scaduti circoscritto ai soli contratti a tempo determinato: una simile disparità di trattamento, invero, risulterebbe del tutto irragionevole.
Si osservi, d’altronde, che l’odierna parte ricorrente ha espressamente posto a fondamento della propria domanda l’impugnazione del termine apposto ai contratti per cui è causa, e questo in quanto i contratti di somministrazione oggetto di giudizio sono proprio a tempo determinato.
Ciò detto, si osserva che l’ultimo rapporto di lavoro tra le parti è giunto a scadenza il 15/3/2010 (doc. 11, fascicolo ricorrente) e che parte ricorrente ha provveduto a impugnare in via stragiudiziale i contratti per cui è causa solo il 12 aprile 2013, con raccomandata pervenuta all’odierna società convenuta il 19 aprile 2013 (doc. 13. fascicolo ricorrente).
Parte ricorrente è quindi decaduta dall’impugnazione, con la conseguenza che il ricorso deve essere rigettato.
Per quel che attiene all’eccepita risoluzione di fatto del rapporto, deve osservarsi quanto segue.
Con riferimento a un giudizio instaurato per il riconoscimento di un rapporto a tempo indeterminato per la nullità del termine del contratto di lavoro, la Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che è configurabile la risoluzione per mutuo consenso, ogniqualvolta sia possibile accertare la presenza di una volontà chiara e certa delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, in considerazione del lasso di tempo lasciato trascorrere dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine e in considerazione delle modalità della conclusione medesima (ossia del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali altre significative circostanze — Cass. Civ., Sez. Lav., 2 dicembre 2000, n. 15403). Tale orientamento può ritenersi ormai consolidato.
Con pronuncia dell’11 settembre 2003, n. 13370, la Suprema Corte ha precisato che “è configurabile la risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro ai sensi dell’ari. 1372, comma primo, cod. civ., anche in presenza non di dichiarazioni ma di comportamenti significativi tenuti dalle parti. In particolare, è suscettibile di una qualificazione in tal senso il comportamento delle parti che, in relazione alla scadenza del termine illegittimamente apposto al contratto, determinano la cessazione della funzionalità di fatto del rapporto per una durata e con una modalità tali da evidenziare il loro completo disinteresse alla sua attuazione”.
La giurisprudenza di legittimità ha anche affermato che “il contratto di lavoro a tempo determinato, rispetto al quale si invochi, dopo la scadenza del rapporto, la declaratoria di nullità del termine illegittimamente apposto, può essere dichiarato risolto per mutuo consenso anche in presenza non di dichiarazioni, ma di comportamenti significativi tenuti dalle parti, spettando al giudice del merito la valutazione sulla loro efficacia solutoria,in base ad un apprezzamento che, se congruamente motivato sul piano logico giuridico, si sottrae a censure in sede di legittimità. In particolare, è suscettibile di essere sussunto nella fattispecie legale di cui all’Art. 1372, primo comma, cod.civ., il comportamento delle parti che determini la cessazione della funzionalità di fatto del rapporto lavorativo a termine in base a modalità tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione, trovando siffatta operazione ermeneutica supporto nella crescente valorizzazione, che attualmente si registra nel quadro della teoria e della disciplina dei contratti, del piano “Oggettivo”del contratto, a discapito del ruolo e della rilevanza della volontà dei contraenti, intesa come momento psicologico dell’iniziativa contrattuale, con conseguente attribuzione del valore di dichiarazioni negoziali a comportamenti sociali valutati in modo tipico, là dove, nella materia lavoristica, operano, proprio nell’anzidetta prospettiva, principi di settore (quali la caratterizzazione professionale del lavoratore;l’obbligazione retributiva del datore di lavoro funzionale alla soddisfazione dei bisogni primari del dipendente;la nascita dell’inderogabile rapporto previdenziale) che non consentono di considerare esistente un rapporto di lavoro senza esecuzione” (Cass. Civ., Sez. Lav., 6 luglio 2007, n. 15264).
Recentemente, la Suprema Corte ha infine precisato che, piè che l’estinzione del contratto per mutuo consenso, l’inerzia del lavoratore nell’impugnazione del termine costituisce una “tacita rinuncia … all’accertamento della nullità del termine, e cioè.., una inequivoca, seppur tacita, manifestazione di volontà intesa alla dismissione di un proprio diritto”: volontà, questa, accertabile “attraverso comportamenti concludenti ed indici presuntivi a tal fine rilevanti e significativi. In difetto dei quali non potrebbe ritenersi raggiunta quella acquisita consapevolezza della illegittimità della clausola e della conversione ex lege del contratto (v. Cass. n. 17070/2002; Cass. n. 824/1993) che qualifica l’inerzia del lavoratore, rendendola altra dalla mera acquiescenza, in quanto non si risolve nella mancata reazione ad un comportamento del datore di lavoro, ma presuppone una inequivoca (seppur concludente) manifestazione di volontà. Ne deriva che rilievo del tutto dirimente viene ad avere, nella soluzione delle problematiche in esame, a prescindere dalla configurabilità di una risoluzione consensuale o di una rinuncia tacita all’ azione di nullità la rilevazione degli indici che consentono di qualificare l’inerzia del dipendente e che possono condurre all’estinzione del rapporto di lavoro. A tal riguardo, se in alcune pronunce si sottolinea il carattere determinante che assume l’intervallo di tempo (particolarmente lungo o tale da eccedere il termine di prescrizione: cfr. ad es. Cass. n. 17150/2008; Cass. n. 15900/2005; Cass. n. 8839/2002) che deve intercorrere fra la scadenza dell’ultimo dei contratti a termine e la contestazione della legittimità del rapporto, in altre si ritiene che il decorso del tempo risulta effettivamente significativo se interpretabile alla luce di ulteriori circostanze (reperimento di altra stabile occupazione, restituzione del libretto di lavoro, accettazione senza riserve del TFR, iscrizione alle liste di collocamento) incompatibili con la volontà di riprendere l’attività lavorativa (cfr. ad es. Cass. n. 5918/2005; Cass. n. 15900/2005; Cass. n. 15624/2007; Cass. n. 13981/2004; Cass. n. 15403/2000) e fermo restando, nelle varie pronunce, una differenziata valutazione del rilievo di ciascuna. A questo proposito pare preferibile ritenere che tutte le circostanze indicate concorrono a descrivere la significatività del comportamento delle parti e che le stesse noni possono essere valutate ne atomisticamente, né secondo una graduazione gerarchica (pur nella intuitiva diversa valenza presuntiva che è attribuibile, ad esempio, al reperimento di altra adeguata e duratura occupazione rispetto alla percezione del TFR), ma alla stregua delle risultanze che emergono nelle fattispecie concrete e sulla base della loro complessiva idoneità a descrivere in termini di univocità la volontà delle parti (ed in specie, del lavoratore) di escludere la prosecuzione dei rapporto di lavoro e la sua definitiva sistemazione secundurn ius. Ritiene, quindi, la Corte di dovere conclusivamente ribadire (v. da ultimo Cass. n. 23872/2009) che la volontà delle parti di porre definitivamente termine ad ogni rapporto di lavorativo o, comunque, la volontà del lavoratore di rinunciare all’accertamento della nullità del rapporto di lavoro a termine, deve essere accertata dai giudice di merito, con apprezzamento di fatto che, se correttamente motivato, resta esente dal sindacato di legittimità, in termini di chiarezza e di univocità, valorizzando ogni circostanza, ed in particolare l’esistenza di un rilevante e significativo intervallo di tempo fra la scadenza dell’ultimo dei contratti l’impugnazione giudiziale, il reperimento di altra idonea occupazione, il contenuto professionale delle mansioni possedute, che renda manifesta la carenza di interesse all’ attuazione del rapporto di lavoro e alla sua definitiva regolazione secundum ius” (Cass. Civ., Sez. Lav., 23 marzo 2011, n. 6634).
Uno degli elementi cui è possibile far riferimento per interpretare la volontà delle parti, dunque, è certamente ravvisabile nel lungo tempo lasciato trascorrere dopo la scadenza dell’ultimo contratto a termine e prima di agire per il riconoscimento di un rapporto a tempo indeterminato.
Anche in considerazione delle conseguenze che ne derivano, l’accertamento della sussistenza di una risoluzione per mutuo consenso esige che sia valutato il comportamento complessivo delle parti, al fine di verificare la ricorrenza di ulteriori elementi idonei a qualificate tale inerzia nei termini di cui all’Art. 1372, co. 1, cc.
Generalmente, la mera inerzia dei contraenti non è sufficiente.
Nel caso di specie, tuttavia, l’inerzia risulta essere un’oggettiva prova del disinteresse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro con la convenuta. Tanto si afferma, da un lato, in considerazione della brevità del rapporto di lavoro intercorso tra le parti e, dall’altro, per il notevole arco temporale trascorso dalla scadenza dell’ultimo rapporto di lavoro — 15/3/2010 — e l’invio dell’impugnazione con offerta della prestazione lavorativa — 19/4/2013 (doc. 13, fascicolo ricorrente).
Questo Giudice è consapevole del fatto che vi sono precedenti giurisprudenziali in cui è stato ritenuto non significativo un arco temporale piè ampio.
Dette pronunce, tuttavia, sono anteriori all’intervento legislativo di cui alla Legge 183/2010 che, all’Art. 32, co. 1, originariamente fissava in complessivi 330 giorni il termine per proporre “l’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 dei decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo”.
Certamente, tale previsione non può in alcun modo trovare una diretta applicazione nell’ipotesi di rapporti di lavoro per somministrazione e nemmeno nell’ipotesi di totale inerzia del lavoratore; essa, cionondimeno, individua un parametro, un limite temporale dal quale non pare nemmeno possibile astrarre totalmente.
Se 330 giorni sono, come già osservato da questo Tribunale, un “termine socialmente congruo… per la proposizione dell’azione giudiziaria dalla cessazione del rapporto” (Tribunale Milano, 26 novembre 2010, n. 4941), non può ammettersi che un lavoratore possa rimanere del tutto inerte per 1123 giorni, ossia piè del triplo del termine decadenziale previsto dal Legislatore, senza con ciò manifestare un evidente disinteresse alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
Disinteresse, peraltro, che non può che essere valorizzato anche in considerazione del contenuto delle mansioni a suo tempo svolte (operaio addetto alla logistica).
Sicché, a fronte dell’esigua durata del rapporto (poco piè di 12 mesi, del significativo lasso di tempo intercorso tra la cessazione degli stessi e la messa in mora della società (oltre tre anni), e delle mansioni lavorative a suo tempo assegnate, non può che concludersi per la sussistenza di una condotta contrastante con la volontà di far valere la nullità dei termini e, quindi, la continuità del rapporto di lavoro con l’utilizzatore.
Pertanto, ritenuto tale profilo assorbente di ogni ulteriore eccezione, e risultando provato il disinteresse del lavoratore alla continuità del rapporto di lavoro G. S. L. s.r.l., anche per questo motivo non può che concludersi per il rigetto del ricorso.
La liquidazione delle spese di lite segue la soccombenza e, pertanto, parte ricorrente deve essere condannata alla rifusione delle stesse nella misura di cui al dispositivo.
Sentenza provvisoriamente esecutiva ex Art. 431 cpc.
P.Q.M.
il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso.
Condanna parte attrice alla rifusione delle spese di lite che liquida in complessivi € 1000,00 oltre I.V.A. e C.P.A.
Sentenza provvisoriamente esecutiva. Milano, 26 luglio 2013
N. 7065/13 R.G.L.
dott.ssa Chiara Colosimo