Cessione ramo d’azienda (Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, Sentenza n. 1396 del 2014)
N. 4664/2013 R.G.
N. 1396 CRON.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI MILANO – Sez. Lavoro
La dott.ssa Sara Manuela MOGLIA, in funzione di giudice del lavoro, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta ai numeri di ruolo generale sopra riportati, promossa con ricorso depositato il 28 marzo 2013
da
B. R., elettivamente domiciliato in Milano, via xxx presso lo studio dell’avv. E.R. che lo rappresenta e difende come da procura in calce al ricorso introduttivo,
– ricorrente
contro
D. G. E. S.P.A. in persona del Direttore Generale ing. A. G., elettivamente domiciliato in Milano, via Lamarmora. 18 presso lo studio dell’avv. Massimo Goffredo che la rappresenta e difende come da procura in calce alla copia notificata del ricorso.
– Convenuta
E contro
E-C. s.p.a. in persona della sig.ra V. F. nella sua qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante, elettivamente domiciliata in Milano, Piazza xxx presso lo studio degli avv.ti M. M., M. M., D. D. F. e G. l. che la rappresentano e difendono come da procura a margine della memoria di costituzione.
– convenuta
OGGETTO: illegittimità del trasferimento e della cessione del ramo d’azienda.
Conclusioni delle parti: all’udienza di discussione i difensori delle parti concludevano come in atti.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato in Cancelleria il 28 marzo 2013 B. R. adiva il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, chiedendo venisse accertata e dichiarata l’illegittimità della cessione del ramo d’azienda intercorsa tra le società G. E. e E-C. da cui era conseguito il trasferimento del suo rapporto di lavoro con la società cessionaria. Per gli effetti, chiedeva la condanna del precedente datore di lavoro al ripristino del rapporto nelle mansioni e nel livello professionale già assegnati con risarcimento dei danni patiti.
Inoltre, che venisse dichiarata l’illegittimità delle sanzioni disciplinari irrogate dal nuovo datore di lavoro con la condanna dello stesso al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore per le condotte datoriali tenute in violazione dell’art. 2087 cc..
Esponeva di essere stato assunto dalla società G. E. il 9 maggio 2011 in forza di un contratto a tempo determinato poi divenuto a tempo indeterminato.
Di essere stato inquadrato nella categoria C1 del CCNL applicato; di essere stato addetto al settore dell’assistenza tecnica e di aver svolto attività di provisioning.
In relazione all’assistenza tecnica, rilevava che si trattava di area appartenente alla divisione dell’Information Technology incaricata di fornire un supporto alla clientela salvo poi, in caso di problematiche legate ai contenuti delle banche dati o al software, trasferire la richiesta ad altri esperti del singolo settore.
Tale operazione comportava il trasferimento del suo rapporto di lavoro alle dipendenze della società cessionaria.
Con il presente ricorso, B. R. contestava la sussistenza di un ramo d’azienda funzionalmente autonomo riferibile ad attività di assistenza tecnica; inoltre il mancato coinvolgimento di beni materiali e il fatto che, secondo la sua prospettazione, la funzione di assistenza era rimasta presso la società cedente.
Dai 1 giugno 2012 al 30 settembre 2012, il ricorrente, presso la cessionaria, era stato adibito a mansioni di assistenza tecnica solo su alcuni prodotti G.
Il 28 settembre 2012 gli è stato comunicata l’assegnazione alla commessa xxx indicazione dei nuovi orari di lavoro e con un nuovo sistema di pause.
Il 7 febbraio 2013, gli è stato comunicato nuovamente un mutamento di commessa. In tal caso, posto che l’avviso era avvenuto oralmente e non per iscritto, il lavoratore non ottemperava a quanto prescrittogli e da ciò conseguivano due sanzioni disciplinari.
Lamentava di essere stato costretto ad usufruire di un numero di ROL aziendali superiori a quelli che avrebbe voluto usufruire e di essere stato costretto a lavorare anche il sabato e la domenica allorché l’area C è disattiva e quindi senza lavoro da svolgere.
Si costituivano le società convenute contestando gli assunti avversari di cui chiedevano il rigetto.
Inutilmente esperito il tentativo di conciliazione, assunte le prove ammesse, all’udienza del 29 aprile 2014, la causa veniva posta in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso va respinto.
Analizzando partitamente le domande proposte, quanto alle contestazioni relative alla cessione del ramo d’azienda, si ritiene che le allegazioni di parte non forniscono elementi tali da consentire di superare l’apparenza giuridica resa manifesta dall’atto di cessione.
È noto che il perimetro della cognizione del giudice è costituito dalle allegazioni delle parti e dalle prove che esse forniscono, non potendo il medesimo travalicare i confini delle deduzioni dell’attore e del convenuto.
Inoltre, laddove il rapporto dedotto trovi fonte in una regolamentazione negoziale, il sindacato dei giudice deve, anzitutto, analizzare quale sia stata la volontà dei contraenti e, laddove, con la domanda proposta, venga contestato che l’apparenza negoziale non corrisponde alla realtà storica, dovendo verificare quanto asserito solo sulla base delle censure mosse, il giudicante non può far altro che esaminare se le allegazioni trovino riscontro e se siano tali da consentire di smascherare una diversa realtà rispetto a quella negoziale.
Va poi richiamato il principio dell’onere della prova che pone a carico di colui che intende far valer un diritto, la dimostrazione dei fatti che ne costituiscono il fondamento e a colui che ne eccepisce la modifica o l’estinzione, la dimostrazione dei fatti su cui l’eccezione si fonda (art. 2697 c.c.).
Applicando nel concreto i principi sopra enunciati, il giudicante deve verificare se gli argomenti utilizzati dai ricorrente per contestare che la cessione tra G. E. e E-C. abbia avuto per oggetto un ramo d’azienda siano tali da sovvertire l’apparenza e smascherare una diversa realtà.
Risulta dagli atti (doc. 14 bis fasc. ric.) che tra le società G. E. e E-C. (con atto notarile rep. N. 69358) è avvenuta la cessione del ramo d’azienda avente per oggetto l’attività di assistenza tecnica e provisioning attivo.
Il fatto storico non è contestato e può dirsi pacifico.
Ciò che, invece, il ricorrente lamenta è che il complesso ceduto possa essere qualificato come ramo d’azienda e che quindi ciò che viene cosi denominato nell’atto di cessione possegga i requisiti per essere tale. Le ragioni della censura non sono, evidentemente, una mera questione nominalistica.
Invero, qualora l’oggetto della cessione sia sussumibile nella fattispecie della cessione del ramo d’azienda, l’intervenuto passaggio del rapporto di lavoro sarebbe la corretta e legittima conseguenza prevista dall’art. 2112 c.c. per la quale non è necessario alcun consenso del lavoratore, diversamente, vi sarebbe cessione del contratto e quindi necessità dell’approvazione del dipendente.
L’art. 2112, comma 5, c.c. dispone: “ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo, si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la sua identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, ivi compresi l’usufrutto e o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”.
Questo il disposto normativo.
La giurisprudenza ha ritenuto che, per ramo d’azienda suscettibile di autonomo trasferimento, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento mantenga la sua identità e consenta l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obbiettivo (vfr. Cass. 24.1.2002: Cass. 22.1.2013. n. 1456); inoltre che sia configurabile il predetto trasferimento anche nell’ipotesi in cui la cessione abbia per oggetto anche il solo gruppo di dipendenti dotati di particolari competenze che siano stabilmente coordinati ed organizzati tra loro così da rendere le loro attività interagenti e idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili (cfr. Cass. 5.3.2008, n. 5932); ancora che nella nozione di cessione del ramo d’azienda possa rientrare ogni ipotesi di trasferimento anche di una sola attività di impresa sempre che sia riscontrabile un complesso di beni o di rapporti interessati al fenomeno traslativo che si verifica anche allorché abbia ad oggetto i soli lavoratori i quali per essere addetti ad un medesimo ramo d’impresa ed in virtè delle esperienze acquisite siano capaci di svolgere le proprie finzioni presso il nuovo datore di lavoro (cfr. Cass. 18.10.2011, n. 2184). Questo tribunale, poi, ha avuto modo di pronunciarsi ritenendo che vi possa essere cessione di azienda anche in presenza della cessione della sola forza lavoro purché in possesso di particolari e consolidate competenze, dotata di know how professionale e di un qualificato supporto organizzativo sì da integrare un servizio autonomo ed oggettivamente rilevante (cfr. Tribunale Milano 18.5.2010: Tribunale Milano 30,6.2010, n. 2966).
Per contro, l’odierno ricorrente contesta che tale sia l’oggetto della cessione avanzando alcune censure.
Nella sua esposizione riconosce che, durante il suo rapporto di lavoro con G., era addetto all’assistenza tecnica ed al servizio di provisioning sui prodotti informatici. Non contesta poi, anzi precisa, che tale tipo di assistenza non era l’unica ed esaustiva forma di supporto offerto alla clientela in quanto, laddove il problema attenesse al contenuto della banca dati o ad aspetti piè prettamente tecnologici, gli addetti dovevano trasferire la richiesta di intervento agli specialisti del settore.
Nel proprio ricorso (cfr. pag. 7), il ricorrente riconosce che, dopo il suo passaggio in E-C. (certamente prima dell’assegnazione a nuova commessa), la sua prestazione lavorativa si sostanziava nel fornire assistenza.
Il medesimo, tuttavia, contesta che vi possa essere stata cessione del ramo d’azienda in quanto la sua attività ha subito una contrazione in termini quantitativi (si sarebbero ridotti i prodotti G. sui quali ha svolto assistenza), inoltre una parte dell’assistenza sarebbe rimasta in G..
Le deduzioni non paiono tali da consentire di confutare il contenuto dell’accordo negoziale.
Il profilo quantitativo non pare elemento dirimente al fine di escludere la sussistenza di una cessione del ramo d’azienda, ben potendo la stessa essere anche imputabile ad una diversa organizzazione del lavoro tra gli addetti; quanto poi all’assistenza, le dichiarazioni del ricorrente risultano smentite dalle prove assunte.
Il teste B. S. (collega del ricorrente e anche lui trasferito in E-C.) ha riferito “l’assistenza di primo livello la facciamo solo noi, in G. è rimasta un’assistenza di secondo livello alla quale possiamo rivolgerci”.
Lo stesso ha riferito il teste B. G.: “le telefonate di assistenza arrivano al numero unico che G. ha trasferito ad E-C…..”.
Le deduzioni contenute nel ricorso che, a tratti, paiono tra loro contraddittorie, e le testimonianze assunte portano quindi alla conclusione che il settore dell’assistenza c.d. di primo livello che prima, per stessa ammissione del ricorrente, era affidata ai sette lavoratori poi trasferiti in E-C. aveva una sua identità (era riconducibile ad un gruppo determinato di lavoratori) e un’autonomia funzionale (potendo anche soddisfare interamente le esigenze della clientela), nonché strumenti di lavoro dedicati. Tale complesso, già preesistente alla cessione, è poi stato trasferito alla cessionaria e in seno alla stessa ha potuto funzionare continuando a prestare la medesima assistenza. Ciò è stato possibile anche grazie al trasferimento dei sistemi applicativi (cfr. teste B. e allegato 3.2.5 dell’atto di cessione). A nulla vale il fatto che i pc assegnati ai singoli lavoratori e gli arredi siano stati cambiati.
Nell’atto di cessione era previsto anche il trasferimento di tali beni ed il teste B. ha riferito di aver personalmente assistito all’imballaggio degli stessi ed all’asportazione dagli uffici G..
Il fatto poi che ai dipendenti si sia deciso di assegnare strumenti di lavoro di piè recente fabbricazione e piè all’avanguardia non compromette certo la funzionalità e l’autonomia del complesso aziendale ceduto.
Ciò che rileva, infatti, è che l’oggetto della cessione sia costituito da una finzione dotata di una sua individualità e che dopo il trasferimento la stessa sia in grado di produrre gli stessi beni o servizi prima offerti.
Tali presupposti trovano perfetta corrispondenza nello specifico oggetto di cessione: la stessa, infatti, ha riguardato un gruppo di lavoratori addetti ad una determinata funzione (assistenza) svolta grazie a strumenti (innanzitutto sistemi applicativi) che sono stati a loro volta trasferiti e che ha continuato ad offrire la medesima ed identica prestazione.
Nessuna rilevanza ha poi il fatto che l’operatività dei singoli tecnici, per effetto della cessione, doveva essere svolta da remoto e non in loco in quanto ciò attiene ad un profilo esclusivamente tecnico e che trova causa proprio nel trasferimento.
Assolutamente inconferenti sono poi le argomentazioni relative alla non convenienza della cessione. Si tratta, invero, di profilo che esula da ogni forma di sindacato giurisdizionale e che trova garanzia nel principio costituzionale previsto dall’art. 41, ovvero la libertà imprenditoriale.
Il trasferimento del personale addetto e dello strumentario necessari all’espletamento del lavoro realizza quindi una cessione del ramo d’azienda nella accezione ammessa dalla Suprema Corte piè sopra richiamata, in quanto unità funzionalmente preposta ad una determinata attività ed in grado di operare autonomamente.
Sotto il profilo sin qui analizzato, ovvero l’inesistenza di un ramo d’azienda non si ritiene di dover dire oltre posto che il ricorrente non offre ulteriori spunti di contestazione. Lo stesso, infatti, a parte i profili sopra indicati, si limita a generiche contestazioni e, posto che, come detto sopra, l’onere probatorio in relazione a quanto viene allegato (ovvero non cessione del ramo ma del contratto) incombe sul ricorrente, questo giudicante non è tenuto ad ulteriori approfondimenti.
Per tutte le ragioni sopra esposte, la domanda relativa alla pretesa illegittimità della cessione deve essere rigettata.
Da ciò consegue anche il rigetto delle domande a ciò connesse e relative alla pretesa condanna al ripristino del rapporto con G. E. ed ai danni asseritamente patiti.
Passando ora alle ulteriori censure, va considerato che, in relazione ai presunti danni derivanti dalla diversa turnazione con lavoro anche nel fine settimana e al coartato utilizzo dei Rol aziendali, le allegazioni di parte risultano assolutamente generiche e, come tali, non suscettibili di alcun esame.
Anzitutto, quanto ai Rol, non è dato comprendere quale sarebbe il danno patito anche ammesso che il godimento sia riconducibile ad una decisione della società e non alla volontà del ricorrente.
Quanto poi al lavoro di sabato e di domenica, a parte che di domenica il ricorrente risulterebbe aver lavorato solo una volta (il 14 ottobre 2012, cfr. doc. 18 ric.), l’altra volta era prevista in data successiva alla presentazione del ricorso, non è dato sapere quali siano stati i danni patiti. Se gli stessi, come sembrerebbe sono riconducibili ad una mancata attività in quanto in tali giornate l’area C era chiusa, va considerato che il ricorrente, anche dopo la sua assegnazione alla commessa xxx, non era adibito solo a tale servizio, come dal medesimo riferito a pag. 8 del ricorso. In ogni caso, non è dato sapere quale sia stato il danno patito che viene indicato genericamente come disagio senza ulteriore approfondimento meritevole di considerazione.
Quanto poi al sistema delle pause che il medesimo lamenta fosse diverso presso E-C. e non compatibile con il suo stato di salute, esclusa la rilevanza circa la conoscenza da parte della società delle sue condizioni, il ricorrente non ha allegato di non aver potuto usufruire di pause e, soprattutto, che tipo di danno gli sia derivato.
Pacifico è che la società fosse al corrente delle sue condizioni di salute (cfr. teste V.), ma, ai fini che qui rilevano, il ricorrente avrebbe dovuto allegare ed offrire di provare di non aver potuto usufruire di pause in determinati giorni da lui richiesti e che tale circostanza è stata fuoriera di danni alla salute.
Nessuna allegazione in tal senso è stata fatta sicchè la domanda risarcitoria non può essere accolta.
– Omissis –
Per tutte le ragioni sopra indicate, il ricorso va rigettato.
Alla soccombenza segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese processuali nella misura che sarà liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria ed ulteriore istanza domanda ed eccezione disattesa, cosi decide:
1) rigetta il ricorso;
2) condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle convenute spese che si liquidano in € 2000 per ciascuna oltre accessori di legge.
Così deciso il 29 aprile 2014
Il giudice
Dott.ssa Sara Manuela Moglia