Contributi sindacali e organizzazioni sindacali non firmatarie del CCNL: modalità, limiti e prassi | ADLABOR
Come si deve comportare il datore di lavoro qualora un lavoratore richieda che la trattenuta ed il relativo versamento del contributo siano effettuate a favore di una organizzazione sindacale che non risulti firmataria del CCNL applicato dall’impresa?
L’art. 26 della legge n.300/1970 ha sancito il diritto dei lavoratori di raccogliere contributi e di svolgere attività di proselitismo per le organizzazioni sindacali di appartenenza all’interno dei luoghi di lavoro, purché ciò non rechi pregiudizio al normale svolgimento dell’attività aziendale.
Nella sua formulazione originaria, precedente al referendum abrogativo del 1995, l’articolo 26 della L. 300/1970 prevedeva due ulteriori commi, secondo cui: “Le associazioni sindacali dei lavoratori hanno diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario nonché sulle prestazioni erogate per conto degli enti previdenziali, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro, che garantiscono la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale.
Nelle aziende nelle quali il rapporto di lavoro non è regolato da contratti collettivi, il lavoratore ha diritto di chiedere il versamento del contributo sindacale all’associazione da lui indicata”.
Tali previsioni legislative, pertanto, riconoscevano il diritto delle associazioni sindacali di percepire le quote prestabilite tramite delega dei prestatori di lavoro che ne avessero fatto richiesta al datore di lavoro, con il conseguente obbligo di quest’ultimo di versare il dovuto al sindacato.
Le norme sopracitate sono state però abrogate dal referendum dell’11 giugno 1995.
L’effetto del referendum abrogativo del 1995 sarebbe dovuto pertanto essere quello di devolvere interamente la materia della riscossione dei contributi sindacali all’autonomia contrattuale delle parti sociali o di qualificarla, perlomeno in via sussidiaria, come delegazione di pagamento ex art. 1269 c.c. . Tale istituto prevede la possibilità, a discrezione del debitore (coincidente, in questo caso, con il datore di lavoro), di provvedere alla ritenuta ed al conseguente versamento a favore di un terzo (coincidente, in questo caso, con il sindacato), previa, ovviamente, richiesta del creditore – dipendente.
Alla luce di ciò, i CCNL dei settori più rilevanti hanno provveduto a disciplinare la materia a livello negoziale, analogamente a quanto prevedevano i commi 2 e 3 dell’art. 26 L. 300/1970 che sono stati oggetto di abrogazione referendaria.
Ma come si deve comportare il datore di lavoro quando un lavoratore richieda che la trattenuta ed il relativo versamento del contributo siano effettuate a favore di una organizzazione sindacale che non risulti firmataria del CCNL applicato dall’impresa?
In questa ipotesi infatti, in difetto di una disciplina legale o derivante dalla contrattazione collettiva che preveda il diritto delle associazioni sindacali di ricevere i contributi mediante automatica ritenuta datoriale sulla retribuzione dei lavoratori iscritti, il datore di lavoro potrebbe legittimamente rifiutarsi di versare tali contributi al sindacato, senza che ciò possa integrare una condotta antisindacale
Aderendo ad un’interpretazione stringente della normativa vigente e della ratio alla base del referendum abrogativo, i dipendenti che sono iscritti ad un sindacato non firmatario del CCNL non dovrebbero poter fare altro che chiedere la delegazione di pagamento ex art. 1269 c.c., che però, come detto, prevede esplicitamente una facoltà di accettazione da parte del datore di lavoro, il che implicherebbe l’assenza di qualsiasi obbligo in capo al datore di lavoro.
Tuttavia, nonostante l’esito referendario, la qualificazione giuridica del meccanismo di riscossione dei contributi sindacali si è configurata mediante il ricorso alla cessione del credito ex art. 1260 cod. civ., oppure alla delegazione di pagamento ex art. 1269 cod. civ.. Nel decennio scorso è intervenuta,la giurisprudenza con una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. Unite, 21 dicembre 2005 n. 28269), la quale ha innanzitutto confermato che, per effetto dell’abrogazione referendaria dell’art. 26, commi 2 e 3 della L. 300/70, la materia dei contributi sindacali risulta rimessa interamente all’autonomia contrattuale.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con il nemmeno troppo celato scopo di non penalizzare le associazioni sindacali non firmatarie dei CCNL di settore, e quindi per evitare un asserito pregiudizio alla libertà sindacale di cui all’art. 39 Cost., ha però avvallato il principio per cui risulta ammissibile il ricorso a tutti i possibili strumenti negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la quota associativa, mediante la ritenuta sulla retribuzione.
Di fatto la giurisprudenza, allo scopo di reintrodurre per il datore di lavoro l’obbligo di operare la trattenuta retributiva provvedendo al conseguente versamento a favore del sindacato, ha ritenuto applicabile alla fattispecie l’articolo 1260 c.c. disciplinante la cessione del credito, in luogo della delegazione di pagamento ex art. 1269 c.c. . Sulla base dell’istituto della cessione, il trasferimento del credito retributivo dal prestatore di lavoro (creditore cedente) al sindacato d’appartenenza (creditore cessionario) può essere infatti effettuato bypassando il consenso del datore di lavoro (debitore ceduto), non essendo la sua accettazione condizione necessaria per il perfezionamento della cessione.
La Suprema Corte, dopo aver qualificato come cessione ex art. 1260 c.c. il versamento del contributo sindacale, ha altresì affermato che il rifiuto del datore di lavoro di accreditare, nonostante l’operatività della cessione del credito, i contributi sindacali, in assenza di un onere insostenibile in rapporto all’organizzazione aziendale o di un giustificato motivo, configura non solo un inadempimento sul piano civilistico, ma anche una condotta antisindacale.
Ciò perché il rifiuto non supportato da un’adeguata giustificazione, costituirebbe una lesione sia del diritto del lavoratore di aderire e sovvenzionare liberamente qualsivoglia sindacato, sia del diritto dell’associazione sindacale di percepire dagli iscritti i finanziamenti necessari allo svolgimento della propria attività.
Il principio dettato nel 2005 dalle Sezioni Unite della Suprema Corte si è consolidato nel tempo e con le successive pronunce della giurisprudenza di legittimità che a tale principio hanno aderito, affermando che “… lo schema che si realizza – nel rapporto fra il lavoratore, il sindacato cui vanno versati i contributi e il datore di lavoro – va ricondotto a quello della cessione di credito (della quota di retribuzione pari ai contributi sindacali dovuti) ex articolo 1260 c.c., in funzione di pagamento, cioè in funzione dell’adempimento dell’obbligazione sorta (in capo al lavoratore) con il negozio di adesione all’organizzazione sindacale.” (Cass. sent. del 2 marzo 2017 n. 5321, conformi Cass . n. 21368/2008, n. 9049/2011 e n. 2314/2012).
In definitiva è possibile sintetizzare, come di seguito, i principi elaborati sul punto dalla giurisprudenza:
a) Il referendum del 1995, abrogativo dell’articolo 26 st. lav., comma 2, non ha determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, ma è soltanto venuto meno il relativo obbligo. I lavoratori, pertanto, possono richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi da accreditare al sindacato cui aderiscono.
b) Tale atto deve essere qualificato cessione del credito.
c) In conseguenza di detta qualificazione, non necessita, in via generale, del consenso del debitore.
d) Non osta il carattere parziale e futuro del credito ceduto: la cessione può riguardare solo una parte del credito ed avere ad oggetto crediti futuri.
Tuttavia, la citata pronuncia delle Sezioni Unite del 2005, non ha dipanato tutte le perplessità sollevate in tema di contributi sindacali.
Infatti, in merito al contesto normativo in cui era stata pronunciata tale sentenza, è da rilevare che la fattispecie sottoposta all’esame della Corte era antecedente alla riforma apportata dalla legge finanziaria del 2005 al d.p.r. n. 180/1950 (concernente il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti della P.A.).
Successivamente alla riforma, infatti, anche ai dipendenti delle imprese private è divenuta applicabile la disposizione relativa alla cessione del quinto dello stipendio.
Sennonché, stante il carattere inderogabile della disciplina, l’istituto della cessione della retribuzione non può essere liberamente utilizzato per qualsiasi pagamento da destinare a terzi, bensì esclusivamente per le finalità previste dal legislatore, ovvero estinguere prestiti contratti con gli istituti finanziari all’uopo autorizzati.
Al di fuori di questa eccezione, pertanto, sembrerebbe operare il divieto generale dell’incedibilità della retribuzione di cui all’art. 1 del d.p.r. n. 180/1950.
Conseguentemente, l’istituto della cessione della retribuzione del lavoratore a favore delle associazioni sindacali non dovrebbe essere più utilizzabile, poiché tale erogazione non rientra tra quelle consentite dal sopra citato d.p.r.
Ulteriore conseguenza, pertanto, dovrebbe essere l’applicazione alla fattispecie in esame della delegazione di pagamento ex art. 1269 cod. civ., che costituisce un negozio trilaterale e che, a differenza della cessione del credito, richiede per la sua attuazione il consenso del debitore-datore di lavoro.
Tale interpretazione è stata seguita dalla giurisprudenza di merito formatasi successivamente alla pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite (Trib. Torino 6 marzo 2006 e Trib. Ascoli Piceno 17 marzo 2006).
In entrambi i casi, i giudici i merito hanno ritenuto utilizzabile, in materia di contributi sindacali, l’istituto della delegazione di pagamento ed hanno escluso l’antisindacabiltà del rifiuto del datore di lavoro di operare le trattenute sulle quote di retribuzione cedute dal lavoratore per il pagamento dei contributi sindacali.
La Cassazione tuttavia, anche sotto questo profilo, ha osteggiato tale interpretazione affermando che: “In tema di riscossione di quote associative sindacali dei dipendenti pubblici e privati a mezzo di trattenuta a opera del datore di lavoro, l’articolo 52 del Dpr 180/1950, come successivamente modificato, nel disciplinare tutte le cessioni di credito da parte dei lavoratori dipendenti, non prevede limitazioni al novero dei cessionari, in ciò differenziandosi da quanto stabilito dall’articolo 5 del medesimo Dpr per le sole ipotesi di cessioni collegate all’erogazione di prestiti. È dunque legittima la trattenuta del datore di lavoro in favore dell’associazione sindacale indicata dal lavoratore, mentre costituisce condotta antisindacale il suo illegittimo rifiuto” (Cass. 26 gennaio 2016, n. 1353).
Alla luce dell’orientamento giurisprudenziale attualmente in auge, nella pratica quindi il datore di lavoro, in presenza di un lavoratore aderente ad un sindacato non firmatario del CCNL applicato in azienda che richieda di versare il contributo sindacale all’associazione sindacale di riferimento, potrà rifiutarsi salvo che il dipendente non qualifichi espressamente tale azione come cessione di credito, formalizzando in tale senso la sua richiesta.
Qualora il datore di lavoro affermi che la cessione comporta in concreto, a suo carico, un onere aggiuntivo insostenibile in rapporto all’organizzazione aziendale e perciò inammissibile ex articoli 1374 e 1375 c.c., deve fornire idonea dimostrazione di tali circostanze. L’eccessiva gravosità della prestazione, che per la maggior parte delle realtà aziendali costituisce una probatio diabolica, in ogni caso, non incide sulla validità e l’efficacia della cessione del credito, ma integra una mera giustificazione dell’inadempimento del debitore ceduto. Al contrario, il rifiuto del datore di lavoro di effettuare tali versamenti in presenza di una formalizzata cessione di credito, qualora sia ingiustificato, configura un inadempimento che, oltre a rilevare sul piano civilistico, costituisce anche condotta antisindacale.
A cura di Francesco Bedon