Trasferimento oltre 50 km – Naspi | ADLABOR | ISPER HR Review

Ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione viene riconosciuta l’indennità di disoccupazione in virtù della disciplina vigente (articolo 2, comma 4, Legge 92/2012 e articolo 3 Decreto Legislativo 22/2015). Tra le ipotesi previste vi è anche quella delle dimissioni per giusta causa ovvero la risoluzione consensuale del rapporto all’esito della procedura di conciliazione ex articolo 7, Legge 604/1966 (cioè la conciliazione a seguito di attivazione della procedura avanti l’Ispettorato Territoriale del Lavoro in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo).

Un’ipotesi particolare prevista dalla disciplina vigente è quella delle dimissioni rassegnate a seguito di trasferimento presso una località distante oltre 50 km dalla residenza o che non sia raggiungibile, con i mezzi pubblici, in meno di 80 minuti.

L’istituto previdenziale, nelle sue circolari, ha però precisato che le dimissioni per giusta causa provocate dal trasferimento oltre 50 km danno accesso alla Naspi purché il trasferimento non sia sorretto da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, così come previsto dall’articolo 2103 Codice Civile. Il lavoratore che ha dichiarato di dimettersi per giusta causa a seguito del trasferimento, dunque, dovrà corredare la domanda con una documentazione idonea da cui risulti almeno la sua volontà di agire in giudizio nei confronti del comportamento illecito del datore di lavoro. E nel caso in cui all’esito della controversia si dovesse escludere la ricorrenza della giusta causa delle dimissioni, l’Istituto procederà recupero di quanto già liquidato al lavoratore a titolo di indennità di disoccupazione.

Recentemente il Tribunale di Torino (con sentenza n. 429/2023) ha affrontato il caso di una lavoratrice che aveva fatto richiesta per la Naspi dopo aver rassegnato le proprie dimissioni per trasferimento oltre i 50km, ma che si era vista negare il trattamento in quanto l’INPS, trattandosi nella fattispecie di dimissioni per giusta causa, riteneva necessario che la lavoratrice provasse che il trasferimento non fosse sorretto da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. In altri termini, secondo l’INPS, la lavoratrice avrebbe dovuto mettere in luce l’infondatezza del trasferimento per poter rivendicare la legittimità delle sue dimissioni e, di conseguenza, ottenere l’indennità.

Il Tribunale di Torino nell’accogliere il ricorso della lavoratrice ha introdotto un nuovo punto di vista, disattendendo la prassi dell’INPS.

Secondo il Giudice di Torino, affinché il lavoratore possa accedere al trattamento Naspi, è necessario che abbia perso in maniera involontaria la propria occupazione. Per valutare se il lavoratore abbia “perduto involontariamente l’occupazione” occorre verificare se la scelta di dimettersi sia frutto di una decisione spontanea e volontaria del lavoratore oppure si indotta da notevoli variazioni delle condizioni di lavoro conseguenti al trasferimento ad altra sede imposto dal datore di lavoro.

Ad avviso dell’INPS tale requisito si considera soddisfatto (e dunque consente di accedere al trattamento di disoccupazione) nell’ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro conseguente al rifiuto del lavoratore al trasferimento oltre 50 km. Mentre, in presenza di dimissioni per asserita giusta causa a seguito di trasferimento ad altra sede dell’azienda è ammesso l’accesso alla prestazione Naspi solamente a condizione che il trasferimento non sia sorretto da “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. Dunque, il lavoratore potrà accedere alla Naspi solo se correda la relativa domanda con documentazione da cui risulti almeno la sua volontà di difendersi in giudizio nei confronti del comportamento illecito del datore di lavoro.

Sulla base di tali premesse il giudice di merito ha rilevato che lo stesso ente, nel garantire il trattamento Naspi nell’ipotesi di risoluzione consensuale, implicitamente conferma che il trasferimento ad altra sede distante 50 km dalla sede abituale o raggiungibile in 80 minuti con mezzi pubblici comporta una notevole variazione delle condizioni di lavoro.

Pertanto, la decisione del lavoratore di dimettersi dopo aver subito un trasferimento di tale natura, a prescindere dalla legittimità o meno della scelta organizzativa datoriale, deve ritenersi una scelta involontaria del dipendente che ha determinato la decisione di dimettersi e, pertanto, comportato una “perdita involontaria” dell’occupazione.

I principi espressi dalla pronunzia ora commentata impattano relativamente sulla posizione del datore di lavoro.

Secondo l’impostazione attuale, nel caso in cui il lavoratore rassegni le dimissioni per giusta causa a seguito di trasferimento, sussiste in capo allo stesso lavoratore l’obbligo di provare, al fine di ottenere l’indennità di disoccupazione, di aver impugnato, magari giudizialmente, il provvedimento di trasferimento ricevuto dal datore di lavoro (nel caso anche rivendicando la corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso).

Se dovesse invece trovare conferma l’impostazione delineata dal Tribunale di Torino, non sarebbe più necessario per il lavoratore provare alcunché a seguito delle dimissioni. E ciò potrebbe significare, per il datore di lavoro (specialmente nel caso in cui non abbia trattenuto l’indennità sostitutiva del preavviso), evitare strascichi e/o l’apertura di un contenzioso, tanto più in sede giudiziale.

Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 13 dicembre 2023.


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