Il lavoratore disabile ha diritto allo smart working? La parola alla Cassazione – Sentenza n. 605 del 10 gennaio 2025
Dal 1° aprile 2024, la legislazione temporanea che era sorta a causa dell’emergenza pandemica, e che garantiva il diritto di smart working ai lavoratori disabili, è stata sostituita dall’art. 18, comma 3-bis, della Legge n. 81/2017 che prevede ora una semplice “priorità” per svolgere la prestazione di lavoro in modalità di lavoro agile, laddove vi siano degli accordi individuali di smart working, a favore di:
- lavoratori e lavoratrici disabili in situazione di gravità accertata (ex art. 4, comma 1, della L. 104/1992);
- genitori di figli fino a 12 anni di età;
- genitori di figli disabili (ex art. 3, comma 3, L. 104/1992);
- caregiver (ex art. 1, comma 255, della L. 205/2017).
La legislazione nazionale e sovranazionale prevede, però, anche l’obbligo per i datori di lavoro di adottare, nei confronti delle persone con disabilità, degli accomodamenti ragionevoli, come ad esempio una modifica alla mansione o all’ambiente di lavoro, necessaria per consentire a un dipendente con disabilità di svolgere il proprio lavoro.
Lo scopo degli accomodamenti ragionevoli è quello di consentire alle persone con disabilità di accedere all’occupazione, parteciparvi e progredire al suo interno.
Questo dovrebbe permettere ai dipendenti con disabilità di raggiungere gli stessi risultati lavorativi e avere le stesse opportunità dei colleghi senza disabilità, semplicemente facendo le cose in modo leggermente diverso.
Ma il lavoro agile può essere considerato un ragionevole accomodamento?
E qual è, quindi, l’atteggiamento corretto che un’azienda deve adottare laddove un lavoratore disabile, con il quale non è stato stipulato alcun accordo di smart working, richieda di poter rendere la prestazione in modalità di lavoro agile?
La Corte di Cassazione, con sentenza 605 del 10 gennaio 2025, ha recentemente affrontato il caso di un lavoratore, invalido civile affetto da gravi deficit visivi, che chiedeva l’assegnazione allo svolgimento delle proprie mansioni da remoto o in regime di lavoro agile.
Nel costituirsi in giudizio, la società datrice ha dedotto che, all’interno del proprio regolamento aziendale, era escluso lo smartworking per i profili analoghi a quello del lavoratore disabile, col quale non era nemmeno stato stipulato alcun accordo individuale che disciplinasse il lavoro agile.
La Cassazione, dopo avere rilevato che, in tema di protezione dei lavoratori disabili, trova applicazione il principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare la parità di trattamento dei soggetti diversamente abili, ha evidenziato che una condotta datoriale tesa a non concretizzare tale dovere, costituisce condotta discriminatoria.
La sentenza, facendo leva sul fatto che durante la pandemia, il dipendente disabile avesse svolto la sua attività da remoto, ha evidenziato che il lavoro agile rappresentava, nel caso specifico, una soluzione adottabile per garantire la parità di trattamento al lavoratore disabile senza imporre oneri finanziari sproporzionati alla società.
In base a tali valutazioni, la Suprema Corte ha confermato il diritto del dipendente a svolgere la propria prestazione da remoto, sottolineando che gli accomodamenti ragionevoli possono essere definiti con accordi negoziali e, in assenza di intesa, spetta al giudice di merito individuare la soluzione più adeguata per tutelare i diritti del lavoratore disabile.
Nella pratica, quindi, onde evitare accuse di discriminazione e i conseguenti contenziosi giudiziari, se non sono di ostacolo questioni di natura economica sproporzionate, è consigliabile che il datore accolga la domanda del dipendente, portatore di handicap, finalizzata a fruire di modalità di lavoro agile nelle sue prestazioni, pur se l’accordo collettivo aziendale esclude dallo Smart-working tutti i lavoratori che svolgono mansioni come quelle del disabile.
Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 5 febbraio 2025.