La clausola di durata minima garantita – Il patto di stabilità | ADLABOR | ISPER HR Review
Nel rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato può essere inserita una clausola di durata minima garantita (o il patto di stabilità) che però è un istituto non disciplinato da alcuna normativa ad hoc. Alcuni principi di regolamentazione di tale istituto si trovano nelle pronunce giurisprudenziali e nell’interpretazione della dottrina.
Tale pattuizione può essere stipulata contestualmente alla firma del contratto di lavoro (in tal caso, secondo la dottrina, avremo la clausola di durata minima garantita) o in un momento successivo, con un accordo separato (in questo caso si parla di patto di stabilità).
Con questa clausola (o patto) il datore di lavoro ed il lavoratore stabiliscono un periodo di tempo entro il quale si impegnano a non recedere dal contratto, al fine di assicurare una stabilità minima del rapporto di lavoro. Tale clausola (o patto) può essere stipulata:
- a favore del dipendente, in questo caso il datore di lavoro si impegna a non licenziare il dipendente entro il periodo concordato, salvo il caso di gravi inadempimenti;
- a favore del datore di lavoro, con questa clausola (o patto) il dipendente si impegna a non dimettersi per il tempo concordato;
- a favore di entrambi, per cui il datore non può procedere al licenziamento e il dipendente non può dimettersi durante il periodo stabilito.
La giurisprudenza ha riconosciuto la legittimità della clausola di durata minima a favore di entrambe le parti di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in quanto in tal caso si realizza un equilibrato contemperamento dell’interesse reciproco delle parti alla stabilità del rapporto per un periodo predeterminato (Cass., Sez. Lav., 15 novembre 1996, n. 10043; Cass., Sez. Lav., 3 febbraio 1996, n. 924).
Tuttavia, se tale clausola è pattuita a favore del datore di lavoro, la questione è più controversa, in quanto l’orientamento della dottrina ritiene nulle tali pattuizioni, in ragione del carattere unilateralmente inderogabile dell’art. 2118 cod. civ (ovvero della disposizione riguardante il recesso dal contratto a tempo indeterminato) ed anche in ragione della limitazione della libertà personale del prestatore di lavoro.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente (ex multis, Corte di Cassazione, sentenza del 9 giugno 2017, n. 14457; Corte di Cassazione, Sentenza 25 luglio 2014, n. 17010; Corte di Cassazione Sentenza 7 settembre 2005, n. 17817), invece, tali patti a favore del datore di lavoro sono legittimi perché il lavoratore può liberamente disporre della propria facoltà di recesso dal rapporto, assumendo l’obbligazione di non recedere (fatta salva la giusta causa) per un periodo temporale predeterminato, e può vincolarsi, inoltre, ad un indennizzo risarcitorio in ipotesi di inadempimento, poiché tale garanzia è stata ritenuta speculare a quella applicabile nel rapporto di lavoro a tempo determinato, laddove, in ipotesi di recesso anticipato al di fuori dell’ipotesi di giusta causa, la parte inadempiente deve tenere indenne la controparte per avere interrotto anticipatamente il rapporto rispetto alla scadenza naturale.
Inoltre, secondo la giurisprudenza, in particolare con la sentenza della Corte di Cassazione n.14457/2017, il patto di stabilità, nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, deve certamente essere remunerato, ma non necessariamente con un compenso “ad hoc”. Infatti, se si appone questa clausola o si conclude tale patto, bisogna prevedere un corrispettivo proporzionato all’impegno che la parte vincolata assume. Tale corrispettivo sebbene sia necessario, può essere liberamente stabilito dalle parti e può consistere in una maggiorazione della retribuzione o in un’obbligazione non-monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore.
La giurisprudenza ha inoltre stabilito che tale clausola (patto) non deve avere durata permanente, indeterminata (Cass. n. 2941 del 1976; Cass. n. 2151 del 1976; Cass. n. 4144 del 1974; Cass. n. 2304 del 1974; Cass. n. 368 del 1971; Cass. n. 17010/2014). In ogni caso, la durata deve essere giustificata da elementi oggettivi, deve essere proporzionata alle specifiche caratteristiche del rapporto di lavoro (ad esempio, deve tenere conto del ruolo svolto dal lavoratore all’interno del contesto aziendale, dell’investimento economico sostenuto dal datore di lavoro per la formazione del lavoratore e della facilità di sostituzione del lavoratore in caso di recesso).
Il patto di stabilità, essendo un accordo tra le parti a tutti gli effetti, può essere modificato in ogni momento con il consenso di entrambe le parti (non può invece essere modificato unilateralmente dal datore di lavoro). In tal caso le parti potranno, dunque, stipulare un nuovo accordo con cui sarà possibile: modificare la durata del periodo di stabilità, risolvere consensualmente il patto di stabilità, inserire una penale all’interno del patto di stabilità (se non è stata prevista originariamente) o modificare l’importo della penale originariamente previsto. Se il datore di lavoro licenzia il dipendente prima del termine del periodo di stabilità, salvo avvenga per giusta causa, secondo la giurisprudenza (Corte di Cassazione, Sentenza 25 giugno 1987, n. 5600, Corte di Cassazione, Sentenza 15 novembre 1996, n. 10043), il dipendente ha diritto al risarcimento del danno, che si commisura alle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito qualora il recesso non fosse avvenuto. Poi ovviamente a ciò si aggiungono gli oneri e i rischi connessi al licenziamento ove questo non sia legittimo. Nel caso in cui, invece, il lavoratore si dimetta (non per giusta causa ), sarà il datore di lavoro a dover dimostrare l’ammontare del danno che ha subito a causa della prematura uscita del lavoratore dall’azienda. Tale onere non è semplice da soddisfare, perciò spesso il datore di lavoro inserisce nell’accordo una clausola penale che consente di predeterminare l’ammontare del risarcimento dovuto in caso di violazione dell’accordo, senza le incertezze di una quantificazione ex post. Infatti, le parti hanno anche la facoltà di inserire nell’accordo una penale contrattuale con cui possono prevedere che la parte che dovesse violarla dovrà corrispondere una certa somma all’altra parte a titolo di risarcimento del danno. Inoltre, il recesso anticipato (non per giusta causa), che comporta la violazione del patto, non esclude l’onere del preavviso a carico del recedente che, in caso di recesso immediato, potrebbe essere tenuto a corrispondere anche l’indennità di mancato preavviso.
Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 25 maggio 2021