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Il lavoro domestico è regolamentato dalla legge n. 339/1958 (“Per la tutela del rapporto di lavoro domestico“) e dagli articoli dal 2240 al 2246 del Codice Civile.

Per quanto riguarda la disciplina dei licenziamenti, il lavoro domestico rappresenta quasi un unicum all’interno dell’ordinamento, poiché per tale tipologia di lavoro è stata prevista la libera recedibilità delle parti. Infatti, l’art. 4 della legge n. 108/1990 esclude l’applicabilità al lavoro domestico della disciplina generale sui licenziamenti e quindi sia la tutela prevista dall’art. 18 della L. n. 300/1970, sia la tutela prevista dall’art. 8 della L. n. 604/1966.

Per quanto riguarda la maternità, il relativo testo unico (D.lgs. n. 151/2001) all’articolo 62, estende anche al lavoro domestico alcune specifiche tutele, quali il diritto al congedo di maternità, (limitando tuttavia le tutele connesse a questo congedo alla percezione della relativa indennità), il divieto di adibizione al lavoro, all’anticipazione del congedo nel caso in cui le donne siano adibite a lavori gravosi o pregiudizievoli, all’interdizione dal lavoro in ipotesi di complicanze oppure di condizioni di lavoro o ambientali pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino.

La norma, però, non include, a favore delle lavoratrici domestiche, la disciplina in tema di licenziamento durante il periodo di gestazione.

Ne consegue che il rapporto di lavoro domestico possa essere risolto anche quando la lavoratrice domestica versa in stato di gravidanza. In questo senso si è espressa la Suprema Corte di Cassazione che, con sentenza del 2 settembre 2015, n. 17433, ha confermato che: “In tema di lavoro domestico non opera il divieto di licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza, atteso che l’art. 62, comma 1, del D.lgs. n. 151 del 2011, richiama gli artt. 6, comma 3, 16, 17, 22 commi 3 e 6 (con il relativo trattamento economico e normativo), ma non anche l’art. 54 dello stesso decreto“.

Va tuttavia tenuto presente quanto previsto dalla contrattazione collettiva di settore (CCNL sulla disciplina del rapporto di lavoro domestico del 16 luglio 2013) che all’art. 24, rubricato “Tutela delle lavoratrici madri“, prevede il divieto di licenziamento fino alla cessazione del congedo di maternità.

Pertanto, nel caso in cui trovi applicazione nel rapporto di lavoro domestico il CCNL di settore, un eventuale licenziamento, pur non comportando né la reintegra né l’indennizzo economico previsto per i licenziamenti,costituisce titolo, per la lavoratrice che si trovi in maternità, per ottenere, a titolo risarcitorio quanto avrebbe percepito durante il congedo di maternità. Sul punto, il Tribunale di Roma ha stabilito che: “Il licenziamento orale della lavoratrice domestica in gravidanza non le consente di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, essendo il rapporto di lavoro domestico escluso dall’ambito di tutela dell’art. 18 Stat. Lav., bensì il risarcimento dei danni, parametrato alla retribuzione non percepita nei cinque mesi in cui opera, per disposizione di legge e della contrattazione collettiva di settore, il divieto di licenziamento della lavoratrice madre” (Tribunale di Roma 20 ottobre 2015, n. 8965).

Il Tribunale capitolino, inoltre, afferma che per la quantificazione del danno si dovrebbe in ogni caso tenere conto dell’incidenza dell’eventuale percezione dell’indennità di maternità a carico dell’Inps, da parte della lavoratrice-madre.

A cura di Francesco Bedon


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