Patto di prova: nullità e conseguenze | ADLABOR | ISPER HR Review
Nel rapporto di lavoro, è previsto il periodo di prova cioè quel lasso di tempo decorrente dall’assunzione in cui il datore di lavoro, ma anche il lavoratore, è libero di recedere dal rapporto, senza oneri e senza addurre alcuna motivazione.
Tale facoltà è stabilita dall’articolo 2096 Codice Civile e ribadita dalla disciplina sui licenziamenti (Legge 604/1966 che all’articolo 10 esclude l’obbligo motivazionale per risolvere i rapporti in prova).
L’articolo 2096 c.c. poneva come unica condizione l’onere di consentire l’esperimento che forma oggetto del patto di prova.
Da qui, tutta quella giurisprudenza che ha ritenuto illegittimo il recesso in prova ove non fosse stato consentito l’esperimento facendovi ricadere in tali ipotesi, ad esempio, l’eccessiva limitatezza del periodo di prova, la mancanza di un’indicazione precisa delle mansioni oggetto dell’esperimento, l’insussistenza di una concreta valutazione dei requisiti personali e professionali del lavoratore, lo svolgimento, durante l’esperimento, di attività diverse da quelle oggetto del patto.
Alla luce di queste pronunzie giudiziali, la facoltà di recesso in prova si è trovata sempre più influenzata dal rispetto delle condizioni testé indicate.
In mancanza dei requisiti voluti dalla legge (ma sarebbe meglio dire i vincoli inerenti il periodo di prova dettati dalla giurisprudenza), il recesso in prova viene considerato nullo.
Infatti, la giurisprudenza ha interpretato la disposizione codicistica identificando limiti alla discrezionalità datoriale che sono stati rinvenuti nella necessità che il recesso sia stato determinato da ragioni inerenti all’esito dell’esperimento in prova (in coerenza con la causa del patto di prova) e non sia riconducibile ad un motivo illecito ed è stata riconosciuta la possibilità per il lavoratore di dedurre in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso, con onere a suo carico di provare, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ., sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova (Corte cost. n. 189 del 1980, Corte cost. n. 255 del 1989, Corte cost. n. 541 del 2000, Cass. n. 1180 del 2017, Cass. n. 469 del 2016, Cass. N. 21784 del 2009, Cass. n. 1213 del 2004, Cass. n. 19354 del 2003, Cass. Sez. Un. n. 11633 del 2002, Cass. n. 2228 del 1999).
La declaratoria di nullità del patto di prova comporta, per giurisprudenza consolidata, l’automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio.
Ma una volta accertata la nullità del patto e la conseguente conversione del rapporto in uno a tempo indeterminato, quali sono le conseguenze del recesso in prova sottoposto al vaglio della giurisprudenza?
La Cassazione in una recente pronunzia (20239/2023) ha affrontato la questione analizzando la disciplina di riferimento ed in particolare le normative che dal 2012 sono intervenute sulla materia dei licenziamenti, disciplinandone le conseguenze in caso di declaratoria di illegittimità in maniera variegata ma nell’intento di superare la reintegrazione come unico rimedio al licenziamento illegittimo.
La prima considerazione della Suprema Corte è stata che il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova si configura come un licenziamento individuale ed è sottoposto alla disciplina comune per quel che attiene ai requisiti di efficacia e di validità ed è soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, l’assunzione era avvenuta dopo l’entrata in vigore del Jobs Act e quindi sottoposta alla disciplina del decreto legislativo 23/2015.
La Corte di Cassazione, confermando la pronunzia della Corte d’Appello, è partita dalla considerazione che l’illegittimo recesso in prova è assimilabile a un licenziamento difettante della giusta causa o del giustificato motivo.
Ma le conseguenze di tale difetto si sono modificate nel corso del tempo talchè, mentre la Legge 92 del 2012 non richiedeva una specifica qualificazione del vizio del recesso e della sua riconducibilità alle ipotesi previste dalla legge poiché la sanzione era sempre quella dell’applicabilità della tutela reintegratoria, con l’intervento del Jobs Act la reintegrazione, come conseguenza dell’illegittimità del recesso, è stata circoscritta a specifici casi ed in particolare alla differenziazione tra giusta causa e giustificato motivo oggettivo.
In sostanza, col nuovo regime la reintegrazione viene disposta per i casi specifici previsti dalla legge (licenziamento discriminatorio, per disabilità, insussistenza del fatto posta base della giusta causa o negli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge), mentre in tutte le altre ipotesi vale solo la tutela economica.
Partendo da tale presupposto, la Suprema Corte è arrivata alla conclusione che ”il recesso ad nutum intimato in assenza di un valido patto di prova non è radicalmente nullo per assenza del relativo potere in capo al soggetto datore di lavoro ma è un licenziamento intimato per ragioni che non sono riconducibili ad alcuna di quelle in presenza delle quali la L. n. 604 del 1966 consente al datore di lavoro la unilaterale risoluzione del rapporto”, riferendo la fattispecie nel recesso in prova al primo comma nell’articolo 3 del decreto legislativo 23/2015 ove si stabilisce che: “Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità” , con la conseguenza che il recesso ad nutum intimato in assenza di valido patto di prova, non riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 3 del D.lgs. n. 23 del 2015 nelle quali è prevista la reintegrazione, resta assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria.
La pronunzia richiamata risulta significativo posto che pare superare precedenti orientamenti che riconoscevano, partendo dalla nullità del patto di prova, l’applicazione della tutela piena e quindi della reintegrazione.
Invece l’arresto della Corte Suprema circoscrive gli effetti della nullità del patto ad una tutela indennitaria che, stante anche la particolare limitatezza dell’anzianità aziendale maturata in periodo di prova, non potrà che essere contenuta.
Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 18 ottobre 2023.